Sappiamo attaccare?
Belle statuine
Quando alleniamo i più piccoli e proponiamo loro le tecniche in risposta da fendenti o percussioni, il tatami si anima di tanti piccoli personaggi di un presepe meccanico. Piccole satuine che fendono l’aria, rigidissime. O che sferrano un pugno che, immancabilmente, devia alla fine, mancando il bersaglio.
Ci sono anche quelli che prendono in pieno il compagno, di proposito… Tuttavia, generalmente, lo spettacolo è questo.
Non è che tra gli adulti sia poi così diverso. Per alcuni versi, è un bene: siamo talmente disabituati a combattere fisicamente fuori dal tatami che ci iscriviamo a un corso di Arti Marziali senza aver mai combattuto sul serio.
Per altri, è un male. Perché l’esperienza fisica -ancorché in un contesto controllato- di un attacco chiaro è una maestra molto valida, a maggior ragione se si ha la pretesa di praticare una disciplina marziale.
Statico e dinamico
Nei contesti ordinari, quelli in cui si svolgono i nostri keiko, le tecniche sono studiate in forma statica o dinamica. Gli attacchi sono codificati e, quantomeno nel programma tecnico dell’Aikido, non prevedono l’utilizzo di percussioni portate con le gambe. I calci non fanno parte del programma tecnico.
Nella forma statica, le prese, così come i fendenti, hanno un chiaro punto di applicazione. Il più delle volte, l’esecuzione inizia già dal primo fotogramma con un punto di contatto statico. In questi casi ci piace considerare l’attacco proprio nella sua semantica di stare…attaccati al proprio compagno.
Quando poi si procede con lo studio -prima di base, poi via via più concatenato- delle tecniche in dinamica, possiamo notare che uke, che sferra l’attacco, continua un’azione di fatto rettilinea, in avanzamento. E’ tori, colui che prenderà iniziativa in conseguenza dell’attacco, che inizierà a spostare il corpo.
Lo spostamento, anche in obbedienza ad un principio di ottimizzazione dei movimenti -o come ripete Stephane Benedetti: “L’Aikido è l’arte della pigrizia- è il più delle volte lineare. Assorbimento, ingresso. Evasione, ingaggio, squilibrio, ingresso. La rotazione di tenkan, che si insegna e si impara come un semicerchio, di fatto è una rivoluzione sul proprio asse (kaiten), a cui segue l’arretramento della gamba diventata anteriore. E’ un movimento di assorbimento circolare? Sì ma anche no.
Ottimi educativi per sviluppare la capacità di tali movimenti sono certamente shihonage, nelle sue forme più di base e soprattutto i tagli e gli affondi nelle otto direzioni (happo giri e happo tsuki).
Torniamo però alla domanda iniziale: sappiamo attaccare?
Una nuova prospettiva
Nelle tecniche libere ad attacchi multipli si vede un po’ di tutto. Come allievi e come insegnanti riteniamo fondamentale poter affiancare allo studio della forma una pratica espressiva più libera, in cui la forma diventa quello che dovrebbe essere: uno strumento -seppur marziale- di comunicazione, usato sotto lo stress degli attacchi.
A differenza delle tecniche che si studiano in allenamento, uke si trova di fronte a un bersaglio mobile. Il movimento di tori induce quindi il movimento di uke. Il quale, per giunta, continuerà ad attaccare di fatto con le modalità apprese dal programma tecnico. Prese, percussioni, fendenti.
Succede quindi che qui si crei un nuovo presepe meccanico, con le statuine in movimento. Una sorta di carillon marziale, con le figurine che si muovono sulla superficie del tatami.
E, come in ogni presepe che si rispetti, ci sono personaggi fissi. C’è l’esagitato che attacca a mille all’ora, a prescindere da chi ha di fronte. C’è chi parte come un missile e poi si spegne. C’è quello che sferra i pugni che fanno le curve. C’è l’uke suicida, che come tocca tori finisce a terra da solo. C’è l’uke-pastore-che-dorme, che gira e gira e gira sul tatami e non attacca mai o, dopo che finalmente ha attaccato, decide di riposarsi e di meritarsi un bel caffè. C’è l’uke infame che sferra un fendente sulla nuca di tori quando questi è occupato già da altri attaccanti. C’è, infine (ma l’elenco potrebbe continuare per ore), l’uke che stringe come un ossesso il gi e rimane appiccicato come lo sporco ostinato dei detersivi.
Siccome l’obiettivo dell’Aikido è -anche e soprattutto- lo studio di se stessi attraverso lo studio del conflitto, lo scopo degli attacchi non può essere quello di lasciare a terra doloranti i nostri compagni.
L’attacco, nell’Aikido perlomeno, è una sorta di riproposizione dei vecchi fucili ad avancarica. Quelli che, una volta sparato, dovevano essere ricaricati. Una scelta, un colpo. Vada come vada.
Colpire un bersaglio mobile significa sviluppare sempre più e sempre meglio la questa qualità. Usando un termine un po’ più per addetti ai lavori: coltivare la promessa dell’attacco.
Il che, per i motivi detti prima, è tutt’altro che immediato.
Se attaccare è problematico, è ovvio che sia complesso anche ricevere. Il randori e il jiyu waza non sono un tafferuglio da strada, anche se è quanto di più simile possa essere sperimentato sul tatami.
Chi è passato sotto una gragnola di colpi in contesti reali sa che è molto diverso da dover fare lo slalom in mezzo a una concatenazione di attacchi singoli, sferrati di fatto con una traiettoria lineare e in avanzamento.
Riconoscere fisicamente la differenza tra una rissa e un jiyu waza sembra banale e immediato. Ma vedendo come si va a corto di fiato, tanto per uke e tori, sembra che immediato non sia.
Se poi vediamo con quanta veemenza vengono talvolta proiettati uke che saltellano ignari verso il proprio macellaio, possiamo arrivare ad alcune conclusioni.
Là dove si trova il potere
Attaccare richiede sensibilità, ascolto e costanza. Che è esattamente il contrario dello stereotipo ad alto testosterone di cui è infarcita la narrazione marziale. Una buona propedeutica è allenare il contatto sempre più intenso e continuativo. Accettarlo, riceverlo, lasciarsi spostare da esso per poi connetterci ed entrarci in relazione.
Ricevere e prendere l’iniziativa richiede altrettanta sensibilità e chiarezza. In più richiede il coraggio della creatività. Così come per uke il bersaglio diventa mobile, per tori l’eventuale finalizzazione di una tecnica palesa la necessità di ricalibrare di continuo il punto di arrivo. Da fermi, con un attacco preordinato, diventa facile concludere la tecnica nei modi e nelle forme richieste da un programma.
In movimento, l’unico elemento che non si sgretola sotto gli attacchi è l’attuazione non delle tecniche ma dei principi. Mantenuti vivi questi, quelle possono manifestarsi.
Ma se né uke né tori sono vivi e si limitano a fare le statuine di un bellissimo presepe giapponese, è difficile che, a sua volta, siano vivi i principi.
Disclaimer: Picture by Cottonbro Studio from Pexels